Oggi noi abbiamo, in campo
agroalimentare, due ordini di problemi. Il primo riguarda la conversione di
ampi spazi di terra all’agricoltura biologica. Gli italiani amano mangiare sano
e richiedono questo tipo di prodotti. E già molto si è discusso sull’eventualità
che le colture tradizionali, con i loro pesticidi (chimica e verderame),
infestassero anche quelle bio. Su questo fronte però, la battaglia è andata a
fondo, anche se pestare i piedi ai colossi dell’agrofarma o dell’agrochimica
non è facile. La sempre più ampia battaglia per mangiare sano ha portato infine
anche sugli scaffali della grande distribuzione e non solo nei negozi
specializzati prodotti “puliti”. Il secondo riguarda il riconoscimento dei
nostri prodotti di denominazione di origine protetta (dop) e di indicazione di
origine protetta (igp), e cioè questo prodotto si può coltivare o produrre
soltanto in questa zona, da cui deriva la denominazione. Così molte aziende si
sono consorziate per poter assicurare la denominazione in etichetta. Ma il
lavoro che hanno fatto i consorzi, nati negli anni Sessanta, sta mostrando la
corda. La denominazione riportata in etichetta è la condizione sine qua non il
prodotto sia di qualità e la crisi dell’economia nata nel 2008, anche con
l’embargo alla Russia, uno dei nostri principali acquirenti, porta molte
persone a comperare prodotti meno cari. Allora il fronte della lotta per
imporre prodotti di qualità si è spostato sull’esportazione e l’Unione Europea
ha avviato nel 2009 negoziati di libero scambio con il Canada (CETA) per
l’eliminazione della gran parte delle tariffe doganali. Ma una delle parti più
lunghe e più difficili della ratifica del trattato ha riguardato proprio la
tutela di alcuni prodotti agricoli e alimentari tipici. In particolare si tratta,
per il Canada, di poter continuare a vendere prodotti contraffatti con nomi di
fantasia (come il parmesan), come accade del resto in tanti altri Paesi che non
vogliono comprare i nostri prodotti tipici perché troppo cari. La
contraffazione ci costa tantissimo in termini di mercati “perduti” e di
trattative per l’export non andate a buon fine. Last but not Least, l’America
di Donald Trump, che ha già messo dazi all’importazione di alluminio ed
acciaio, lo farà anche sui prodotti alimentari per lasciare il campo libero
all’esportazione delle sue derrate.
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