venerdì 24 giugno 2011

Se il cibo è cultura, che fine ha fatto la cultura?

Negli ultimi giorni sulla stampa è caccia al Codice del Turismo annunciato dal ministro Brambilla che dovrebbe contenere misure di sostegno, anche economico, alla ristorazione italiana di qualità, ma che non piace agli esercenti perché permetterebbe ai ristoranti degli alberghi di accettare anche clienti che li scelgono solo per mangiare ma senza pernottare (ma una volta, nei grandi alberghi, non lo si poteva già fare?). Intanto gli agriturismi si segnalano in crescita proprio per la degustazione di prodotti enogastronomici locali, una delle principali motivazioni della vacanza in campagna, “nettamente preferita alle visite a musei e monumenti” (sic). E dai e dai, ci siamo arrivati: la “cultura” del gusto sta battendo la cultura tout court proprio nella patria dell’arte? Ammesso che stare in fila delle ore per ammirare quadri che si conoscono solo per sentito dire sia veramente cultura. Ma ormai da anni ci vendono la cultura come fosse un prodotto e i prodotti come se fossero cultura. E anche chi avrebbe gli strumenti culturali per smascherare il gioco, lo asseconda. Cosa ne pensate?

lunedì 13 giugno 2011

L’antiretorica artusiana

“Le mode passano, lo stile resta.” Ovvio, ma come farlo capire quando non si fa altro, in cucina, che parlare di territorio, filiera, prodotti tipici, chilometro zero, tradizione ecc., parole vuote, che indicano appunto solo delle mode, se non sostanziate da uno stile vero? Per questo nel 100° anniversario della sua morte è ancora importante ricordare Pellegrino Artusi. Questi raccolse gran parte delle ricette regionali “tradizionali” e le unì in un unico manuale della cucina italiana, senza mai adoperare la parola tradizione, come fa notare Alberto Capatti, che insegna all’Università di Scienze gastronomiche, nell’introduzione all’ultime edizione de La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene ad opera della Bur. “Una parola, tradizione, – scrive Capatti – sempre più utile per designare nel presente il passato e per coprire culture innovative alla ricerca di una validazione storica, per descrivere la qualità non solo come filiera, ma come processo ambientale e umano, e per imballare, quando occorre, il nulla.” Ecco, non vogliamo dire che sia sempre così, del resto anche qui è scritto: “quando occorre”.  Ma il saper fare da capo e fare da sé, come insegnava Artusi, non ha bisogno di nessuna retorica.