mercoledì 17 ottobre 2018

L'etica vegana presuppone una filiera non sostenibile

Spiace precisare alcune cose con cui Slow Food non sarebbe d'accordo, ma purtroppo l'etica vegana presuppone una filiera non sostenibile. Da quando negli ultimi anni la parola etica è diventata universale e significa soprattutto non uccidere gli animali, intere filiere alimentari sono cambiate. Nei Paesi poveri è diventato più conveniente mangiare hamburger ed esportare i propri prodotti vegetali e perciò "etici". Per molte persone definirsi persone con etica significa mangiare vegano e hanno pure creato un Parma Etica Festival, tre giorni di talk, workshop e seminari sull'etica vegan e vegetariana.
Altro esempio di questa tendenza è la "bibbia" della comunità vegana italiana: "La cucina etica", con lo scopo di fornire ricette legate allo sviluppo sostenibile. A proposito delle quali sarà utile ricordare come molti vegetali quali anacardi, mandorle, avocado, quinoa e prodotti come soia e tofu richiedono enorme impiego d'acqua per essere coltivati e il sacrificio dei contadini del Sud del mondo. Oltre alla scomparsa di riserve idriche e campi grandi quanto Germania e Italia. Quello che dai vegani viene chiamato cruelty free è anche la raccolta degli anacardi nel Sud Vietnam a prezzi di immensi sacrifici dei contadini pagati pochissimo. Gli anacardi vengono poi processati in India con metodi di produzione più disumani di quelli della Apple. C'è poi tutto il capitolo della deforestazione a causa delle colture intensive come quelle della soia. E anche se  questa serve perlopiù da mangime per gli animali, " sostituire carne e latte con analoghi alimenti raffinati come il tofu, potrebbe aumentare la quantità di fabbisogno alimentare". Una vasta quantità di alimenti consumati dai vegani richiede quindi una lunga filiera di lavorazione poco remunerata. Una cucina interamente vegana, come quella a km0, praticamente non esistono.     

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