domenica 24 dicembre 2017

L'etica vegana presuppone una filiera non sostenibile



Da quando negli ultimi anni la parola etica è diventata universale e significa soprattutto non uccidere gli animali, intere filiere agroalimentari sono cambiate. Nei Paesi poveri è diventato più conveniente mangiare hamburger ed esportare i propri prodotti vegetali e perciò “etici”. Per molte persone definirsi persone con etica significa mangiare vegano e hanno pure creato un Parma Etica Festival, tre giorni di talk, workshop e seminari sull’etica vegan e vegetariana. Altro esempio di questa tendenza è la bibbia della comunità vegana italiana “La cucina etica”, con lo scopo di fornire ricette legate allo sviluppo sostenibile. A proposito del quale sarà utile ricordare come molti vegetali quali anacardi, mandorle, avocado, quinoa e prodotti come soia e tofu richiedono enorme impiego di acqua per essere coltivati e il sacrificio dei contadini del Sud del mondo. Oltre alla scomparsa di riserve idriche e campi grandi quanto Germania e Italia. Quello che dai vegani viene chiamato cruelty free è anche la raccolta degli anacardi nel Sud Vietnam a prezzi di immensi sacrifici dei contadini pagati pochissimo. Gli anacardi vengono poi processati in India con metodi di produzione più disumani di quelli della Apple. C’è poi tutto il capitolo della deforestazione a causa delle colture intensive come quelle della soia. E anche se questa serve perlopiù da mangime per gli animali, “sostituire carne e latte con analoghi alimenti raffinati come il tofu potrebbe aumentare la quantità di terreno arato necessario per il fabbisogno alimentare”. Una vasta quantità di alimenti consumati dai vegani richiede una lunga filiera di lavorazione poco remunerata. Una cucina interamente vegana, come quella a km 0, praticamente non esistono.

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