venerdì 11 marzo 2011

4 “chiacchiere”, ma come le fanno a Trieste

Martedì di questa settimana che è “grasso”, ma non qui a Milano, dove secondo il rito ambrosiano il Carnevale si festeggia il giovedì e il sabato successivo, ho rinunciato a tagliarmi i capelli perché la mia parrucchiera pretendeva di farlo travestita da Regina di Cuori, e la shampista era Cappuccetto Rosso (si erano mascherate davvero così, ma non per una festa, proprio per lavorare…). In età adulta ho indossato un costume, da squaw indiana, solo una volta, tredici anni fa, ad una festa in casa di un’amica conosciuta due anni prima ad un campo estivo archeologico di Colleferro, vicino Roma. Bella casa - zona Fiera-Monterosa -, con taverna e spazio per il tavolo da biliardo; bella gente, bei costumi, lei da principessa, una sua amica Regina della notte, il personaggio più inquietante del Flauto Magico di Mozart, e la socialità che, tra inviti a ballare e giochi di società finalmente intelligenti e divertenti, cui ho partecipato per la prima volta in vita mia con convinzione, ha fatto premio su quanto bevuto e mangiato, argomento del quale stranamente non conservo nessunissimo ricordo: hanno servito Champagne o spumante? Drink analcolici o cocktail (e quali)? Abbiamo mangiato salato o dolce? Tra i dolci c’erano tortelli o chiacchiere? Questa salutare amnesia oggi ce la rendono impossibile i media, il sistema della comunicazione più in generale, gli usi e le abitudini comuni ai più secondo i quali ogni occasione di incontro viene subordinata all’ “esperienza gustativa”. Che altro non è se non che l‘esasperazione di un’abbondanza alimentare di cui solo in Occidente però godiamo, senza che questa fortuna sia valorizzata puntando sulla vera qualità. Una qualità di cui né gli ingredienti di cui realmente disponiamo, né le ricette che impieghiamo in cucina, quando e se cuciniamo, sono all’altezza. Ecco perché vi do, per Carnevale, la ricetta del libro “Cucina triestina” che usa mia madre per fare i crostoli (chiacchiere a Milano, cenci in Toscana ecc.) e che, nella versione “economica” illustrata nel ricettario del 1927 di Maria Stelvio sono molto più saporiti, fragranti e leggeri perché non hanno burro ma vino (nell’impasto non c’è nemmeno lo zucchero ma se volete ne potete aggiungere un mezzo cucchiaio). Altri segreti: far riposare la pasta coperta da una scodella per tre quarti d’ora e friggere in olio molto caldo togliendo quasi subito. Dunque ecco qua: fare una fossetta in 250 g di farina ammucchiata sulla tavola e versarvi dentro 1 tuorlo, ½ guscio d’uovo di olio, ½ guscio di vino bianco e sale q.b.; lavorare la pasta ben liscia gettandola spesso con tutta la forza sulla tavola; farla riposare come detto e stenderla con il rullo; poi stenderla ancora mettendo il dorso infarinato delle mani sotto il centro della pasta, strisciando fino all’orlo; tagliare a piacere, friggere e una volta raffreddati, spolverare di zucchero a velo.   

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