mercoledì 1 maggio 2013

Primo maggio e l'emergenza lavoro, anche nei settori favoriti come la ristorazione

Oggi è il primo maggio, festa dei lavoratori, con manifestazioni in corso in tutta Italia e che a Milano si celebra con il corteo dei sindacati unitari, da Porta Venezia a piazza Della Scala (quello nazionale ha luogo a Perugia), e la Mayday Parade dei precari, con concentramento in Ticinese, piazza XXIV Maggio, e diretta quest’anno a Palazzo Lombardia. Il lavoro, su cui si fonda la Repubblica, è al centro delle misure sui cui si sta impegnando il neonato governo Letta, che ha già promesso sgravi fiscali sui redditi da lavoro stesso e sulle assunzioni dei giovani e delle donne. Nonché garanzie di un welfare per gli esodati, promettendo addirittura una sorta di reddito minimo garantito per chi il lavoro non ce l’ha o non ce l’ha più. Dove si andranno a reperire i fondi per attuare questi provvedimenti, però, non è stato chiarito. Come non si fa abbastanza chiarezza su cosa fare per mettere un argine al precariato. Che è nato quando una generazione, la mia, quella dei baby boomers, è entrata nel mondo del lavoro all’epoca dei primi contratti di formazione – lavoro, negli anni Ottanta, un mezzo per assumere personale a tempo determinato, e quindi di poterlo licenziare senza causa, e con minori oneri fiscali. Da qui a tenere fuori anche le generazioni successive dal lavoro garantito (il posto fisso), il passo è stato breve, inaugurando la triste stagione della flessibilità che ha oggi come epilogo l’esodo dall’attività lavorativa senza la pensione, ma anche senza nessuna rete di assistenza sociale che si sta cercando adesso di garantire ai soli lavoratori assunti a tempo indeterminato e poi licenziati intorno ai cinquant’anni. Se perdere il posto non era già accaduto prima, e senza nessuna possibilità di tornare a essere occupati, come per le donne che sceglievano il part time al fine di accudire i loro bambini e a figli cresciuti sono rimaste definitivamente fuori dal mondo del lavoro. I precari poi non sono favoriti nemmeno dagli annunciati sgravi delle tasse sul reddito da lavoro, perché sono lavoratori autonomi o partite Iva, soggetti a quell’ Irpef che da anni, se non da decenni, si promette di riformulare in modo maggiormente progressivo (meno tasse sotto una certa soglia reddito e maggiore gradualità a salire), ma non se ne è mai fatto nulla. Quando poi queste persone, in età matura, perdono il lavoro, non esiste più nessuna alternativa. Chiaro che se adesso anche gli imprenditori sono i crisi, e molti di loro oggi partecipano alle manifestazioni dei lavoratori, insieme a cassa integrati, disoccupati e pensionati, non può che generare ancora più preoccupazione la condizione dell’occupazione giovanile, con ormai il 37% dei ragazzi tra i 18 e i 25 anni che non riesce a trovare lavoro, ai quali è stata fatta la sola promessa, già dal governo Monti, di sconti fiscali a chi li assume e di una riforma dell’apprendistato, ma che ancora non si è vista realizzare, o non ha dato nessun esito. Intanto, ogniqualvolta in un settore, come quello per esempio della ristorazione o del turismo enogastronomico, che sono gli unici per ora in crescita con ancora molte prospettive di sviluppo, si apre qualche spiraglio, le chance che si offrono ai giovani, come quelle della ricerca di 6.000 pizzaioli di cui abbiamo già parlato su questo blog, vengono spesso subordinate agli interessi delle aziende di formazione che offrono corsi che sono in genere molto costosi, o comunque mai abbastanza trasparenti sui loro effettivi oneri per i partecipanti. E che durano anche una sola settimana, come se questa potesse sostituire gli anni di esperienza che ci vogliono a “rubare” il mestiere lavorando pazientemente fianco a fianco a chi lo sa già fare, magari per molto tempo, come è sempre stato fin quando si assumeva regolarmente. Il lavoro potrà essere anche stato il valore fondante della democrazia in questo Paese all’epoca dei padri costituenti, certo è che della sua dignità e della sua centralità nella costruzione delle esistenze individuali e collettive, in questi ultimi quattro decenni se ne è proprio persa la traccia, se non nella retorica vuota di una casta che si affanna a difenderlo più per auto garantirsi il diritto a governare ancora, anche tutta insieme, destra e sinistra, che per difendere l’interesse dei lavoratori. Primo maggio: per continuare a crederci oggi ci vuole davvero tanto coraggio.

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